Forse ancora assopiti dal buon vino della sera prima
decidiamo di partire più tardi del solito non valutando il nuovo passaggio di
frontiera.
Se l’uscita dalla Georgia è semplice e veloce, l’ingresso in Armenia
si rivela complicato e piuttosto lungo. Il controllo passaporti è praticamente
immediato, ma per la moto occorre convalidare l’ingresso con un documento che
viene redatto in un ufficio privo di aria condizionata e totalmente disorganizzato.
Così mentre Francesco aspetta al caldo accanto alla moto, Serena si ritrova ad
essere l’unica donna in fila tra decine di uomini. L’addetto la inirizza nella
fila sbagliata; risultato ci vogliono circa due ore affinchè il foglio venga
compilato. Successivamente c’è da stipulare l’assicurazione e ne abbiamo per
un’altra mezz’ora. La M5, principale via di collegamento tra Georgia ed
Armenia, non è altro che una stretta strada nella gola del Debed
scenograficamente bellissima. Si procede alla media di 40 km/h a causa del
fondo distrutto o addirittura mancante con continua guida enduristica a pieno
carico disturbata anche da autisti di tir e macchine che sono di fronte ad una
moto, forse per la prima volta.
Ci fermiamo a Hagpat e da lì visitiamo alcuni monasteri
circostanti.
Ciò che più ci colpisce, però, è Alaverdi, la città post
industriale sovietica per eccellenza: la miniera di rame, oggi sotto
utilizzata, ci propone una vista sconvolgente di capannoni e condomini in stato
di abbandono e il colore dominante è quello della ruggine che sta lentamente
consumando le strutture. Il fumo della ciminiera è portato sulla cima della
montagna da una lunghissima tubazione e ad oggi sono pochissimi i
lavoratori dello stabilimento.
Mentre ceniamo nel giardino dell’albergo sentiamo
della musica provenire da sopra di noi; preso il caffè, incuriositi, saliamo
pochi gradini e scopriamo un banchetto di amici e familiari. In men che non si
dica ci ritroviamo seduti davanti ad un bicchiere di vodka con il capofamiglia
che ci invita al brindisi e al cibo. Vogliono sapere da dove veniamo e ci
ripetono cento volte della fratellanza tra il popolo armeno e quello italiano.
I musicisti ci dedicano canzoni e le signore ci invitano a ballare. Il
risultato è che finiamo la serata a
cantare “Io sono un italiano” di Toto Cutugno tra abbracci e baci. Questa è per
noi l’introduzione alla disponibilità e alla gentilezza del popolo armeno.
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