mercoledì 13 luglio 2016

Armenia: quando il passaggio di un confine fa cambiare tutto



Forse ancora assopiti dal buon vino della sera prima decidiamo di partire più tardi del solito non valutando il nuovo passaggio di frontiera.


Se l’uscita dalla Georgia è semplice e veloce, l’ingresso in Armenia si rivela complicato e piuttosto lungo. Il controllo passaporti è praticamente immediato, ma per la moto occorre convalidare l’ingresso con un documento che viene redatto in un ufficio privo di aria condizionata e totalmente disorganizzato. Così mentre Francesco aspetta al caldo accanto alla moto, Serena si ritrova ad essere l’unica donna in fila tra decine di uomini. L’addetto la inirizza nella fila sbagliata; risultato ci vogliono circa due ore affinchè il foglio venga compilato. Successivamente c’è da stipulare l’assicurazione e ne abbiamo per un’altra mezz’ora. La M5, principale via di collegamento tra Georgia ed Armenia, non è altro che una stretta strada nella gola del Debed scenograficamente bellissima. Si procede alla media di 40 km/h a causa del fondo distrutto o addirittura mancante con continua guida enduristica a pieno carico disturbata anche da autisti di tir e macchine che sono di fronte ad una moto, forse per la prima volta.
Ci fermiamo a Hagpat e da lì visitiamo alcuni monasteri circostanti. 




  
Ciò che più ci colpisce, però, è Alaverdi, la città post industriale sovietica per eccellenza: la miniera di rame, oggi sotto utilizzata, ci propone una vista sconvolgente di capannoni e condomini in stato di abbandono e il colore dominante è quello della ruggine che sta lentamente consumando le strutture. Il fumo della ciminiera è portato sulla cima della montagna da una lunghissima tubazione e ad oggi sono pochissimi i lavoratori  dello stabilimento.
   
                                          

Mentre ceniamo nel giardino dell’albergo sentiamo della musica provenire da sopra di noi; preso il caffè, incuriositi, saliamo pochi gradini e scopriamo un banchetto di amici e familiari. In men che non si dica ci ritroviamo seduti davanti ad un bicchiere di vodka con il capofamiglia che ci invita al brindisi e al cibo. Vogliono sapere da dove veniamo e ci ripetono cento volte della fratellanza tra il popolo armeno e quello italiano. I musicisti ci dedicano canzoni e le signore ci invitano a ballare. Il risultato è che finiamo la serata  a cantare “Io sono un italiano” di Toto Cutugno tra abbracci e baci. Questa è per noi l’introduzione alla disponibilità e alla gentilezza del popolo armeno.


Nessun commento:

Posta un commento